
«Di te ha detto il mio cuore:
“Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto», (Sal 27, 8-9).
Dalle parole del salmista esce l’eco di questo desiderio, antico quanto l’uomo, di poter vedere il volto di Dio, di poter fissare lo sguardo sul mistero che da sempre affascina l’umanità, per cercare di dare una risposta all’interrogativo per eccellenza: ciò che ci circonda, dal frammento di un atomo alle galassie dell’universo, è frutto di un caso o proviene dal sorprendente disegno di Qualcuno che è oltre le contingenti coordinate dello spazio e del tempo?
Anche Mosè, così famigliare con il Dio di Israele, non poté scorgere questo sguardo: «Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es. 33,21-23).
Questo desiderio ritorna come interrogativo posto a Gesù stesso dai suoi discepoli: «Signore, mostraci il Padre e ci basta», gli domandò un giorno Filippo, dando occasionane alla risposta che offre uno squarcio sul mistero trinitario: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 8-9). Per i cristiani quindi in Gesù è stato svelato il volto di Dio ed è stato definitivamente squarciato il velo di mistero tra l’uomo e il suo creatore.
Chi ha avuto la possibilità, nelle scorse settimane, di entrare nell’antica chiesa di Sant’Anna di Verzimo, ridente frazione di Varallo collocata in amena posizione sui monti che sovrastano il grande santuario del Sacro Monte, ha avuto la fortuna di avvicinarsi ad un’opera d’arte contemporanea che aiuta a soffermarsi, in meditante silenzio, davanti al trascendente mistero dello sguardo di Dio.
L’artista Celio Bordin, mediante l’utilizzo della penna stilografica, ha infatti realizzato una riproduzione del volto di Cristo così come restituito dal telo della Sindone, la più famosa e studiata reliquia della cristianità, oggi conservata nel duomo di Torino.
A prescindere dal riconoscimento o meno della sua autenticità, che non implica assolutamente un giudizio di fede, è indubbio che l’immagine impressa su quel telo di lino ha costituito da secoli un prototipo per la riproduzione di immagini del Redentore.
Studi molto approfonditi, realizzati con una serie di confronti con molte opere d’arte diffuse nel Mediterraneo, hanno dimostrato che antiche icone, mosaici parietali e affreschi, sono stati elaborati sulla base della conoscenza, diretta o filtrata, dell’impronta facciale restituita dal telo sindonico. I sempre più sofisticati mezzi di elaborazione grafica hanno permesso infatti di stabilire che i punti di contatto tra i volti confrontati sono più numerosi delle differenze.
Come è noto, il vero mistero di questa singolarissima reliquia è il modo in cui l’immagine è potuta restare impressa sul lino, soprattutto se si considera che essa presenta le caratteristiche di un negativo fotografico. L’attenzione del mondo scientifico verso la Sindone di Torino, infatti, inizia nel 1898, quando il fotografo dilettante Secondo Pia scatta le prime foto al sacro oggetto; il risultato è sorprendente: sul negativo la figura si presenta in positivo, mentre alla vista e sul positivo della foto è restituita come negativa.
Nonostante siano state proposte diverse teorie e siano stati effettuati diversi esperimenti scientifici per giungere a determinare in che modo l’impronta si sia potuta fissare, nessuno ad oggi è riuscito a fornirne una spiegazione esaustiva o a riprodurne tutte le caratteristiche. L’unico dato su cui concordano tutti coloro che hanno studiato il sacro telo, è che non si tratta di un dipinto, né di una incisione a caldo, e nel tempo le caratteristiche della figura sono rimaste pressoché inalterate.
L’opera di Bordin nasce proprio da una sua personale esperienza vissuta durante una visita alla Sindone, in occasione dell’ostensione del telo nella cattedrale torinese: ha sentito il fascino di una presenza che ha voluto poi restituire nel quadro che ha saputo magistralmente comporre. Soffermandosi davanti a questa immagine si percepisce immediatamente la sensazione che più che osservare si è osservati, più ci si immerge in quel volto più si è raggiunti da quello sguardo in un interscambio emotivo che induce alla riflessione, quasi fermando il tempo.
Guardando con attenzione la composizione, frammento per frammento, si scorgono, tra i tratti scuri della penna stilografica, diversi volti: tessere di quell’immenso e variegato mosaico che è l’umanità, tra gioie e sofferenze, speranze e delusioni che, secondo la fede cristiana, Gesù ha fatto proprie con la sua incarnazione.
Se il tratto scuro della penna induce ad un’immediata presa di coscienza sulla drammaticità di quel volto che - non si dimentichi - restituisce l’esperienza di un uomo che ha subito le sofferenze che i vangeli descrivono nella Passione, lo sfondo, in color oro e rame, colloca l’immagine in un orizzonte di luce che dilata la sua percezione verso l’infinito, aprendo a una dimensione che trascende la superfice su cui è stata realizzata l’opera.
La temporanea collocazione del quadro sulla parete della cappella della Madonna del Rosario, decorata nel settecento, ha inoltre permesso di gustare la bellezza di un’arte sacra che sa ancora parlare, con le sue realizzazioni, al nostro tempo, così frammentato e confuso. L’incontro diretto con il suo autore, che trascorre parte del suo tempo nella quiete del posto, ha permesso di conoscere ciò che sta dietro – ma forse meglio sarebbe dire dentro – a questa composizione.
È la scoperta, forse sorprendente, di quei Semina Verbi – per dirla con San Giustino – che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo e disseminato tra le pieghe, seppur tortuose, della storia.
L’opera creata da Celio, così come la reliquia che l’ha ispirata, resta volutamente sospesa tra la sera del Venerdì Santo, quando il lenzuolo accolse un corpo martoriato e la mattina di Pasqua, quando lo restituì risorto.
È perfetta icona del Sabato Santo – il giorno privo di ogni liturgia - quando la fede pasquale è preceduta dalla speranza che la morte non abbia l’ultima parola nel libro dell’umana esistenza.
Don Damiano Pomi
Docente presso la facoltà di Storia e Beni Culturali della Pontificia Università Gregoriana di Roma
[ Pubblicato previo concessione dell'Artista Celio Bordin © - Los Angeles CA - Tutti i diritti riservati ]